“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, Fran, giù, cadono. (…) Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio.” (Baricco, “Novecento”)
Penso sempre a questa scena quando succedono eventi inaspettati, che irrompono nel tempo e nello spazio, senza apparenti ragioni, né legami logici con quello che stai vivendo. Come osservare alla televisione un aereo che si abbatte su un grattacielo, oppure ricevere un messaggio. Un messaggio in cui il tuo capo ti dice che tu e tutti i tuoi colleghi dovete fare il tampone. C’è stato un caso di positività nel gruppo.
Una stretta allo stomaco. Giri lo sguardo e incroci quello del tuo collega, come se fosse uno specchio.
Era tutto lontano e improvvisamente tutto così vicino.
Però no, tu sei dalla parte di chi aiuta, di chi conosce le procedure e il cui lavoro è esattamente quello di sostenere e accogliere chi si trova a dover fronteggiare la situazione. Sei “personale sanitario”! Quindi, sangue freddo, razionalità, verifichiamo la situazione, sei stata attenta a tutto, hai rispettato le prescrizioni e poi lavori proprio nel luogo in cui le prescrizioni e le norme vengono spiegate ai cittadini.
Ma questo non basta, non serve, è inutile pensarci, perché il corpo è più veloce del pensiero. E dice solo una cosa: “Paura”.
Qualcosa da cui hai cercato di proteggerti, qualcosa di invisibile e sconosciuto potrebbe essere riuscito ad attaccare il tuo corpo e potrebbe essere lì, che circola dentro di te, anche se tu non ti accorgi. “Asintomatici” sono coloro che, pur se clinicamente malati, non hanno sintomi evidenti, che “stanno bene”. Però il virus, se c’è, è presente. E neanche la Medicina conosce bene le conseguenze potenziali che tale infezione possa portare.
Cerco di fermare il pensiero e di fare ordine. Ho fatto il possibile, le possibilità sono minime. E se anche fosse, posso organizzarmi. Ho gestito situazioni complicate, sopportato condizioni psicologiche gravose, so che potrei affrontarlo.
Il problema però non sono solo io, ma tutte le persone con cui sono stata in contatto. Il mio compagno convivente, che a sua volta lavora ed ha contatti quotidiani con altre persone, la mia famiglia, la sua famiglia, gli amici, con cui proprio la sera prima abbiamo passato una serata di relax al ristorante.
Tutto si ferma, improvvisamente, come avessi premuto il tasto “pause”. Vorresti chiudere tutto, fermare il tempo, che lo dicessero subito. Ecco, il tempo è il peggiore nemico. L’attesa di un verdetto. Vita o morte, metaforicamente, ma non troppo. Positivo e negativo che improvvisamente assumono significati opposti, quasi a prenderti in giro.
E tutto diventa relativo, perde di importanza ciò che sembrava fondamentale, mentre inizi a fare caso alle cose quotidiane, non ti avvicini troppo ai tuoi cari, nessun bacio ne carezza, attenzione alle stoviglie, a pulire con attenzione ciò che utilizzi.
Il pensiero del futuro si mette in stand-by; non sai cosa farai, cosa sarai costretto a fare, dove potrai stare. Una sorta di nebulosa avvolge tutto, il pensiero non riesce a fare luce. L’idea che, a seconda del verdetto che verrà dato a te, dipenderà quello che gli altri saranno costretti a fare, senza perderti nel pensiero angoscioso delle possibili più gravi conseguenze. Vorresti solo che il tempo non esistesse, ma fosse già “quel” momento. Ditemi, vi prego, cosa devo fare. Questo non è un giorno, sono solo minuti che si accumulano, un non-tempo, vorrei essere sola, chiusa in una bolla. Ditemi se potrò uscire o se dovrò abbandonarmi all’idea che quella bolla sarà la mia casa per un numero di giorni indefinito. So adattarmi, lo faccio bene, sto bene in compagnia di me stessa. Ma questo no.